L’esposizione “Nel vento e nel ricordo”, semplicemente raccontando ciò che accadde, suscita riflessioni e domande, invita a pensare a ciò che è stato per non ripeterlo in futuro.

L’iniziativa nasce per celebrare il Giorno della Memoria e vuole portare alla luce la storia e le testimonianze dei bambini ebrei della provincia di Lucca, che subirono il dramma delle deportazioni e delle leggi razziali durante la seconda guerra mondiale.

Una mostra intensa e commovente, che integra testi, ritagli di giornale, foto dell’epoca con i racconti di coloro che vissero sulla propria pelle la paura e le atrocità della persecuzione, pagine nere della Storia italiana che non hanno risparmiato Lucca e i suoi territori circostanti.

La particolarità della ricerca proposta è data proprio dal punto di vista che i curatori hanno scelto di approfondire: quello dei bambini, la cui infanzia fu interrotta da un ingiustificabile razzismo.

Storie importanti e spesso dimenticate, alcune a lieto fine, altre no, che, se mescolate con le vicende dei numerosi gruppi clandestini, come quello di Giorgio Nissim e dei sacerdoti oblati, che riuscirono a salvare la vita a moltissimi ebrei, portano il visitatore a riflettere sul passato, sulla crudeltà della guerra, ma anche sulle vicende del nostro presente e su cosa di prezioso possiamo apprendere per il futuro.

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VIAGGIA ATTRAVERSO I PANNELLI DELLA MOSTRA

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TRA PERSECUZIONE E GUERRA, L’INFANZIA NEGATA.

Nelle guerre in cui si assiste ad un massiccio coinvolgimento delle popolazioni civili, intere generazioni restano segnate dalla violenza e si vedono negate il diritto ad un’armonica crescita. Se l’infanzia è o dovrebbe essere il tempo dell’innocenza serena, durante la guerra non si resta innocenti e bambini a lungo.
Oltre alla violenza della guerra, i bambini e le bambine di questa mostra hanno subito, in quanto ebrei, la persecuzione antisemita di matrice razzista, nazista e fascista.
Per effetto delle leggi razziali, dapprima furono privati dei loro diritti e della loro quotidianità: la scuola, il lavoro dei padri, le amicizie, lo stare in mezzo agli altri senza avvertire diffidenza, sospetto e disprezzo. Furono plumbei anni d’infanzia, trascorsi nell’isolamento, stringendosi nel calore familiare e nella vita sociale e religiosa delle proprie comunità. Nonostante ciò si studiava e si lavorava, talora ci si preparava a lasciare una patria che non ci voleva più con il sogno di un futuro di libertà.
Nell’autunno del 1943, in Italia, le bambine ed i bambini ebrei dovettero affrontare prove ancor più difficili. Per sfuggire alla deportazione, dovevi nascondere chi eri, imparare un nome nuovo, diffidare degli altri; talvolta dovevi lasciare i tuoi cari e vivere in contesti estranei, dove rischiavi di dimenticare la tua storia e la tua identità.
Per i piccoli era difficile farsi una ragione dell’odio e dell’indifferenza, sopportare fame e paure che si aggiungevano ai pericoli della guerra in corso: bombardamenti e, più avanti, rastrellamenti e stragi che colpivano anche il resto della popolazione.
A volte si sono trovate mani amiche che hanno aiutato a resistere alla bufera e allora il futuro è stato possibile, in altri casi purtroppo questo non è accaduto e il progetto razzista ha travolto e spezzato le vite.
Ma sospesi nel tempo restano i volti, i nomi, i progetti di vita, più forti del disegno di annientamento.

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IL CONTESTO STORICO.

L’8 settembre 1943, il Capo del governo Badoglio rese nota la firma dell’armistizio tra Italia e Forze Alleate. Cominciò così l’ultima parte della seconda guerra mondiale, la più difficile, dall’occupazione nazista e dalla Repubblica di Salò alla Liberazione del territorio nazionale.
I protagonisti di questa mostra si trovarono a vivere in una condizione ancor più complessa e tragica.
In Germania la legislazione antiebraica aveva preso avvio nel 1933, quando Adolf Hitler era diventato Cancelliere del Reich. Nell’Italia fascista, nel 1938, era stato pubblicato il “Manifesto degli scienziati razzisti”, era stato effettuato il censimento degli ebrei ed emanati “I Provvedimenti per la difesa della razza italiana”: le leggi razziali.
Dopo l’8 settembre 1943 in Italia la persecuzione antiebraica diventò più intensa. Non solo erano lesi i diritti delle persone, ma le loro stesse vite cominciarono ad essere in pericolo. A metà settembre, le autorità naziste effettuarono da Merano la prima deportazione di ebrei arrestati in Italia e i primi eccidi sul lago Maggiore. Il 16 ottobre i nazisti operarono il rastrellamento del ghetto di Roma, a cui seguì la deportazione.
In Toscana, nel novembre, si ebbero arresti e deportazioni a Siena e a Firenze, dove svolsero un ruolo attivo anche militi della Repubblica Sociale Italiana.

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IL CONTESTO STORICO.

Il 14 novembre 1943, a Verona, il Partito Fascista Repubblicano approvò il suo programma politico in cui gli ebrei vennero dichiarati “di nazionalità nemica”. Il 30 novembre, il ministro dell’Interno Buffarini Guidi emise l’ordine di polizia n. 5 in cui si davano indicazioni per l’arresto degli ebrei e il loro concentramento in appositi campi provinciali. Si disponeva, inoltre, la confisca di tutti i loro beni. In tal modo la Repubblica Sociale Italiana assumeva la decisione e la responsabilità dell’arresto e della deportazione degli ebrei. Nella provincia di Lucca gli arresti ebbero inizio nei primi giorni di dicembre e proseguirono nel gennaio ’44. Gli ebrei vennero condotti a Bagni di Lucca, dove in località Bagni Caldi si trovava l’edificio sede del campo di concentramento provinciale per ebrei previsto dall’ordinanza.

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PAOLO E LUCIANA DA NAPOLI A BAGNI DI LUCCA.

Paolo Procaccia e Luciana Pacifici erano cugini e vivevano a Napoli dove erano nati agli inizi del 1943. Nell’estate, a causa degli intensi bombardamenti alleati su Napoli, Paolo e Luciana, con i genitori, i nonni Procaccia, gli zii e Renato, un cuginetto più grande, lasciarono la città e raggiunsero la provincia di Lucca dove si trovavano gli altri nonni. Erano in tutto undici persone, inclusi i bambini piccoli. Il gruppo familiare si stabilì a Cerasomma, una frazione del Comune di Lucca. Qui, nonostante la guerra, Paolo e Luciana vissero giorni abbastanza sereni. I rapporti con i proprietari della casa erano buoni. Le loro famiglie potevano contare sull’aiuto e l’affetto dei parenti e non mancavano le reciproche visite. La guerra e le bombe aveva infatti fatto rientrare in Versilia anche zii e cugini di Luciana, mentre i suoi nonni paterni abitavano a Viareggio. Anche i nonni materni di Paolo, da Livorno si erano spostati a pochi chilometri da Cerasomma. In dicembre però la presenza di questo gruppo familiare fu segnalata alle autorità fasciste, che stavano procedendo agli arresti degli ebrei. Paolo e Luciana furono arrestati con i genitori e i nonni Procaccia, in tutto otto persone. Sfuggirono all’arresto il cuginetto Renato con i genitori, perché non erano in casa. Nel freddo dell’inverno i piccoli e i loro familiari furono condotti negli spogli locali del campo provinciale di concentramento per ebrei, a Bagni di Lucca. I parenti ancora liberi cercarono di aiutarli, di star loro vicini, rendendo per quanto possibile meno dura la prigionia. Quando Paolo si ammalò, riuscirono a farlo visitare da un medico. Purtroppo, proprio in questa attività di assistenza, fu arrestato lo zio Sergio Molco, il babbo di Renato. Nel gennaio 1944, il gruppo fu deportato ad Auschwitz, dove furono uccisi. Con i suoi otto mesi di vita Luciana Pacifici è la più piccola per età degli ebrei deportati dalla provincia di Lucca e anche dei deportati di Napoli.

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VENUTI DA LONTANO.

Uguale sorte fu quella degli ebrei esuli stranieri che si trovavano nella nostra provincia. Le loro famiglie avevano dovuto lasciare le città dove vivevano, a causa dei provvedimenti antiebraici che il regime nazista aveva emanato, dapprima in Germania e poi in tutti gli Stati che aveva occupato nella sua politica espansiva. La loro speranza era di lasciare l’Europa; l’Italia era dunque solo una tappa, il porto da cui salpare. Ma trovare uno Stato che accettasse di accogliere gli ebrei esuli non era facile e, dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, le difficoltà divennero enormi. L’Italia fascista in guerra considerò gli ebrei stranieri esuli come potenzialmente pericolosi e ne dispose l’arresto e l’internamento in campi creati appositamente nell’Italia centrale e meridionale. Successivamente molti di loro furono inviati in località isolate nell’Italia centrale e settentrionale in un regime di sorveglianza speciale definito “internamento libero”. Località di internamento libero di ebrei in provincia di Lucca furono: Castelnuovo di Garfagnana, Bagni di Lucca, Altopascio. Agli ebrei esuli internati, che già avevano dovuto lasciare nei paesi di origine quasi tutti gli eventuali beni, non era consentito lavorare. Per il loro mantenimento era assegnata una cifra molto modesta che consentiva appena una misera sopravvivenza. La libertà di movimento era limitata, le lettere sottoposte ad attenta censura. Anche per loro vigevano le disposizioni antiebraiche delle leggi razziali del 1938. Per aiutare gli ebrei esuli, gli ebrei italiani organizzarono un’opera di assistenza chiamata DELASEM (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei) che aveva il compito di raccogliere fondi da distribuire alle famiglie maggiormente in difficoltà.

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VENUTI DA LONTANO.

Una scuola per continuare a pensare il futuro Tra l’estate del 1941 e l’autunno del 1943, a Castelnuovo di Garfagnana, furono internati, assieme ai loro genitori, bambine e bambini ebrei provenienti da diversi paesi europei: Austria, Germania, Polonia e Cecoslovacchia. Nel dicembre 1941, qui nacque anche una bambina: Herta Toronski. Lontani dai loro paesi di origine, che alcuni avevano lasciato in tenera età, condussero con le loro famiglie una vita ai limiti della sopravvivenza e spesso i loro corpi recavano i segni della malnutrizione. Gli adulti, però, si adoperarono affinché avessero una formazione religiosa e un’istruzione scolastica. Arturo, Anna, Helmut, Gerda, Benzion, Abraham, Jechiel, Lena, Max, Rosa, Jacob, Anna, Manfred: sono i nomi degli scolari, di diverse età, di questa piccola scuola autogestita. Le scarse risorse economiche non impedirono che per i bambini ci fosse qualche cosa di dolce e di goloso per le festività di Hannuka e Purim. Le relazioni con la popolazione locale furono influenzate negativamente dalla propaganda razzista svolta dal fascismo. Tuttavia, il ricordo intenso che è rimasto di loro in quanti li hanno conosciuti ci fa capire come questa forzata convivenza di culture diverse avesse fatto nascere anche sentimenti di solidarietà e di amicizia. La speranza di un futuro e quella coraggiosa esperienza scolastica furono interrotte quando gli ebrei di Castelnuovo ricevettero l’ordine di presentarsi alle autorità il mattino del 5 dicembre 1943. Con l’eccezione delle famiglie Meier e Kienwald, bambini e genitori, privati dei loro scarsi beni, vennero trasferiti presso il campo di concentramento provinciale per ebrei di Bagni di Lucca, da cui furono in seguito deportati.

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IDENTITÀ RELIGIOSA.

In questa notte del mondo, Israel accende le luci di Hannuka “Ebbene oggi in questi tempi oscuri, in questa notte del mondo, Israel accende le luci di Hannuka”. Con queste parole il rabbino di Genova, Riccardo Pacifici, concludeva una riflessione sul significato della festa pubblicata nel bollettino DELASEM inviato agli ebrei stranieri internati nel dicembre 1941. L’immagine delle luci di Hannuka che contrastano la violenza della persecuzione antiebraica in atto e della guerra esprime molto bene l’importanza della vita religiosa in quelle drammatiche contingenze. La ricchezza della cultura ebraica si manifesta in occasione delle festività religiose. Canti, riti e tradizioni sono diversi a seconda dei paesi di origine. Questa varietà si manifestava anche tra gli ebrei presenti nella nostra provincia. Nelle sere di Hannuka, dopo l’accensione della Chanukkiah, il candelabro a nove bracci tipico di questa ricorrenza, per i bambini degli ebrei esuli non saranno mancate le frittelle di patate, laktes, o le ciambelle ripiene, probabilmente mangiate in allegria giocando con il dreidel, una trottola a quattro facce che recano quattro lettere dell’alfabeto ebraico. Possiamo immaginare l’entusiasmo dei bambini e delle bambine quando, a Purim, durante la lettura del libro di Ester, bisognava far rumore per coprire il nome del malvagio Amman che progettava la morte degli ebrei. Quanti buoni dolcetti dopo il racconto o la recita della storia della coraggiosa regina Ester e dell’eroico Mardocheo. Chiaramente per coloro che si salvarono nascondendo la propria identità, spesso fu indispensabile frequentare la chiesa, i bambini dovettero imparare alcune preghiere; queste necessità aggiunsero sofferenza alla sofferenza. Le testimonianze ci riferiscono che si cercò comunque di mantenere la propria religiosità, rispettando ad esempio il digiuno di Yom Kippur, il riposo di Shabbat e evitando di mangiare cibi lievitati per Pesach.

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VENUTI DA LONTANO.

Non dimenticare per costruire la Pace Darko, Hela, Kurt e Liliana, sono i nomi dei bambini e delle bambine che vissero in internamento libero con le loro famiglie a Bagni di Lucca. Non abbiamo testimonianze su di loro, le notizie le traiamo dai dati degli elenchi ufficiali e da qualche altro raro documento in cui vengono citati. Darko ed Hela erano fratello e sorella ed erano nati a Karlovac, città croata, allora jugoslava. Erano stati internati insieme alla mamma. Anche Kurt e Liliana erano fratello e sorella, lui nato a Vienna come i genitori, mentre Liliana era nata durante il periodo dell’internamento. La mamma Alice l’aveva data alla luce a Bagni di Lucca il 19 ottobre 1942. Leo, il padre, orologiaio, riusciva a guadagnare qualcosa esercitando di nascosto la professione. La vita sembrava snodarsi tranquilla, in quella cittadina, stazione termale abituata a prestigiose presenze da tutta Europa. Alla fine di ottobre la famiglia si allontanò da Bagni di Lucca ma a dicembre la ritroviamo a Bagni Caldi nell’edificio sede del campo di concentramento insieme a Darko, Hela, alla loro mamma e a tutti gli altri ebrei stranieri e italiani che erano stati arrestati. Trascorsero lì oltre un mese per poi essere avviati alla deportazione. A memoria di Liliana, che aveva solo poco più di un anno quando fu trascinata via per sempre da Bagni di Lucca, suo paese natale, la comunità ha posto un cippo di marmo nel Parco della Pace a Fornoli. Il suo ricordo e l’impegno per un futuro in cui l’odio razziale non abbia più spazio si rinnovano ogni anno.

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IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO PROVINCIALE PER EBREI A BAGNI DI LUCCA.

Nell’edificio dell’ex Albergo “Le Terme”, in località Bagni Caldi, dal 6 dicembre 1943 al 23 gennaio 1944 vennero concentrati oltre cento ebrei italiani e stranieri in condizioni igieniche molto precarie, alcuni dei quali furono in seguito rilasciati. Era loro fornito un pasto al giorno e i giacigli erano di paglia. Chi poteva disporre di denaro ebbe un trattamento migliore. La sorveglianza era svolta da un reparto della 86ª Legione di Lucca della Guardia Nazionale Repubblicana. Il 23 gennaio 1944 gli ebrei vennero presi in consegna da militari tedeschi, trasportati con camion nel carcere di Firenze e successivamente trasferiti in treno al carcere di Milano. Il 30 gennaio, dal binario 21 della Stazione centrale, partì il convoglio n. 6 carico di 605 ebrei, tra i quali si trovavano anche gli arrestati in provincia di Lucca. La destinazione era Auschwitz. Il campo di Bagni di Lucca venne chiuso il 25 gennaio 1944. Degli ebrei arrestati in seguito, alcuni vennero rinchiusi nel campo di concentramento per prigionieri politici, detenuti comuni ed ebrei di Colle di Compito, altri invece furono portati nel carcere di Firenze. Allo stato attuale della ricerca, gli ebrei deportati dalla provincia di Lucca furono complessivamente 110. Tra gli ebrei detenuti nel campo di Bagni Caldi le persone di età compresa entro i diciotto anni erano 27 Mosè Auerhahn, nato a Lipsia (Germania) il 6 dicembre 1938 Rosa Feintuch, nata a Vienna (Austria) il 18 aprile 1929 Jakob Feintuch, nato a Vienna (Austria) il 19 aprile 1931 Anna Feintuch, nata a Vienna (Austria) il 1 agosto 1933 Manfred Feintuch, nato a Vienna (Austria) il 6 giugno 1934 Fritz Efraim Frisch, nato a Teplice Sanov (Cecoslovacchia) l’11 aprile 1926 Leni Frisch, nata a Teplice Sanov (Cecoslovacchia) il 22 febbraio 1930 Max Frisch, nato a Teplice Sanov (Cecoslovacchia) il 28 novembre 1932 Anna Karpeles, nata a Cracovia (Polonia) il 20 novembre 1927 Benzion Mendelsohn, nato a Zabno (Polonia) il 10 dicembre 1932 Abraham Mendelsohn, nato a Zabno (Polonia) il17 ottobre 1935 Jechiel Mendelsohn, nato a Zabno (Polonia) il17 ottobre 1935 Miriam Mendelsohn, nata a Cracovia (Polonia) il 2 dicembre 1936 Gerda Schnapp, nata a Vienna (Austria) l’8 marzo 1926 Helmut Toronski, nato a Giessen (Germania), il 28 settembre 1932 Herta Toronski, nata a Castelnuovo di Garfagnana il 18 dicembre 1941 Hela Rajner, nata a Karlovac (Jugoslavia) il 19 settembre 1933 Darko Rajner, nato a Karlovac (Jugoslavia) il 30 maggio 1937 Kurt Urbach, nato a Vienna (Austria) il 27 febbraio 1939 Liliana Urbach, nata a Bagni di Lucca il 19 ottobre 1942 Mario Abenaim, nato a Livorno il 24 agosto 1927 Angelo Giacomo Levi, nato a Livorno l’11 marzo 1929 Elios Natale Levi, nato a Livorno il 1 ottobre 1930 Aldo Levi, nato a Livorno il 12 ottobre 1934 Carlo Levi, nato a Livorno il 7 gennaio 1938 Paolo Procaccia, nato a Napoli il 3 gennaio 1943 Luciana Pacifici, nata a Napoli il 28 maggio 1943 Helmut e Herta Toronski non partirono ma furono liberati con i genitori perché la madre non era ebrea. Degli altri solo Mario Abenaim ha fatto ritorno.

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SALVARE VITE.

L’8 settembre 1943 e i giorni seguenti videro i civili, soprattutto le donne, muoversi in aiuto dei soldati sbandati. Le sofferenze provocate dalla guerra, le disillusioni sul fascismo, l’occupazione nazista, parvero operare in molta parte della popolazione un risveglio delle coscienze che si concretizzò nel soccorrere quanti si trovavano in difficoltà e in pericolo. A volte si trattò di azioni spontanee e individuali, in altri casi furono opera di appartenenti a formazioni partigiane o a una resistenza senz’armi, spesso organizzata in reti. All’avvio della persecuzione delle loro vite, anche gli ebrei in cerca di scampo incontrarono persone che scelsero la solidarietà. Persone capaci di ascoltare e di guardare l’Altro con occhi fraterni, nonostante il pericolo. Le strade per la salvezza furono molto diverse: a volte furono gli ebrei stessi che riuscirono a trovare autonomamente il rifugio, altre volte fu invece decisivo l’aiuto scaturito da una umanità ritrovata, sfidando inveterati pregiudizi e disposizioni fasciste e naziste. Nella nostra provincia l’arcivescovo Antonio Torrini promosse tra il clero carità e amore verso le popolazioni vittime della guerra e verso i perseguitati. Oltre che tramite le parrocchie, il progetto operava attraverso l’opera dei sacerdoti Oblati del Volto Santo: don Arturo Paoli, don Sirio Niccolai, don Guido Staderini, don Renzo Tambellini. Nell’autunno ’43 Giorgio Nissim, ebreo pisano rappresentante dell’opera assistenziale ebraica DELASEM, prese contatti con gli Oblati. Si creò così una rete di assistenza ebraico-cristiana che riuscì a salvare molti ebrei italiani e stranieri, oltre che esponenti della Resistenza. La rete procurava nuove identità e rifugi sicuri. A questa azione contribuirono resistenti, parroci, religiosi e religiose, appartenenti all’Azione Cattolica, lo stesso arcivescovo e molte altre persone rimaste sconosciute.

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EDI.

Io sono Edi. La mia famiglia viveva a Livorno. Avevamo una merceria, ma con le leggi razziali tutto cambiò. Nell’autunno del 1943, poi, per una spiata dei fascisti, fummo costretti a rifugiarci a Marlia, in una casa presso Santa Caterina. Ricordo che un giorno ci misero tutti in un salone. A un cenno di mio padre, io e il mio fratellino Sirio ci siamo infilati in una stanzetta e lì siamo rimasti nascosti. Anche mio padre Mario si nascose. Mia madre Dina e l’altro mio fratello Dino si lasciarono portare via, convinti che li avrebbero mandati a lavorare, ma che non sarebbe successo loro nulla di grave. Fu l’ultima volta che li vidi. Con loro furono condotti via anche mio nonno Davide, mia zia Silla, gli zii Renzo Sirio ed Oreste e i miei cugini Mario e Renzo. Ricordo che quando non sentimmo più alcun rumore ci togliemmo le scarpe e ci buttammo scalzi nei campi. Corremmo a perdifiato. I piedi feriti e doloranti, ma non ci fermammo fino a che non trovammo un ponticello e lì ci nascondemmo. Subito però vedemmo spuntare due teste e noi iniziamo a dire: “non siamo ebrei! non siamo ebrei!” Per fortuna, ci sentimmo rispondere: “siamo partigiani. Ci raccolsero e ci tennero con loro per un paio di notti. Poi ci riportarono a Livorno, dove rincontrammo nostro padre. Quanta paura! Ho ancora le cicatrici sotto i piedi. Mi rammentano quella fuga, la deportazione dei miei familiari, e quando con le leggi razziali tutto cambiò… Quando le amiche con cui giocavo fino a poco tempo prima si rifiutavano di stare con me perché ero ebrea; quando dovetti lasciare la scuola, perché ero ebrea; quando un giorno in un bar non vollero darmi il gelato e io protestai col direttore, che mi rispose: “Bimba sai leggere? Guarda cosa c’è scritto dietro di te: non si dà il gelato agli Ebrei”.

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ALBERTO.

Io sono Alberto. Nel corso della guerra i miei genitori ed io abbandonammo la nostra città, Livorno, prima per salvarci dai bombardamenti aerei e poi perché eravamo perseguitati. Abbiamo cambiato rifugio per oltre dieci volte. Vivevamo come se il peggio ci aspettasse dietro l’angolo. Io ero un bambino di circa dieci anni e non capivo quello che ci stava accadendo. Ricordo che un giorno mio padre, sotto la pensilina di una stazione ferroviaria, alle prime luci dell’alba, mi spiegò, per sommi capi, il motivo della nostra fuga. Ci volevano morti solo perché ebrei. Ai nostri persecutori non importava che fossimo italiani o che avessimo lasciato la religione ebraica per quella cristiana. La nostra identità era la nostra colpa. Se chiudo gli occhi mi torna alla mente un giorno della primavera del 1944: dopo molte peripezie avevamo trovato rifugio in una casa di contadini a Pieve di Compito, ma una “notizia riservata” del nostro protettore, il parroco del paese, don Nello Marcucci, ci mise improvvisamente in allarme e, nel giro di pochi minuti, eravamo tutti e tre sulla strada. Camminavamo lentamente, lungo il ciglio della strada polverosa, con un paio di fagotti fra le mani. Dopo qualche chilometro arrivammo ad un piccolo paese, San Leonardo in Treponzio. Disperati andammo dal parroco del luogo, don Paolo Ghiselli, che con qualche difficoltà – già nascondeva in canonica un prigioniero di guerra inglese evaso – trovò una soluzione: babbo poteva rimanere con la famiglia Ghiselli, mamma fu sistemata provvisoriamente presso il parroco di San Ginese per tornare dopo qualche giorno insieme a babbo, mentre io fui accompagnato presso quello di San Giusto di Compito, don Giuseppe Pellegrini, dove ero destinato a restare fino alla liberazione. Ricordo che il 29 giugno di quell’anno nella chiesa di S. Leonardo ricevetti la prima comunione e la cresima sotto falso nome… Ma non bastava aver abbandonato la casa o il nome: rischiavamo la vita ogni giorno ed insieme a noi la rischiavano i nostri protettori. Ad essi il nostro eterno “grazie”.

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SILVANO.

Io sono Silvano. Sono nato a Firenze il 20 luglio del 1934 in una famiglia tradizionalmente ebraica. Avevo e ho una sorella di diciotto mesi più grande. Mio padre era telegrafista nella società Italcable e mia madre maestra elementare alla scuola ebraica di Firenze. Con l’introduzione delle leggi razziali del 1938 i miei genitori persero il lavoro e subimmo molte altre restrizioni. Le leggi razziali ci imposero anche di licenziare la nostra tata, Clotilde Nardini, perché di religione cattolica. Lo facemmo, ma lei restò con noi clandestinamente. La situazione per gli ebrei peggiorò nettamente dopo l’8 settembre del 1943, con l’arrivo dei tedeschi in Italia e l’inizio delle deportazioni. Un amico dell’Italcable ci trovò un rifugio nel convento di Santa Marta, ma sorse un problema apparentemente insormontabile. Le suore, infatti, si rifiutarono di accettare anche noi bambini per paura che potessimo farci scoprire. Mamma e papà potevano restare, mia sorella e io no. Intervenne, allora, la nostra tata Clotilde che, pur cosciente dei rischi che correva, decise di portare me e mia sorella a casa della sua famiglia nel paese di Tofori – Capannori. Qui ci hanno accolto e protetto, tanto è vero che quando un soldato che combatteva per la Repubblica Sociale italiana tornò in paese perché ferito, fummo subito avvisati e ci allontanammo da quel rifugio. Di nuovo in fuga insieme alla nostra tata affittammo una camera in una casa a Sesto Fiorentino. La padrona di casa era una vecchia signora semiparalitica, che viveva con due nipoti, una ragazza e un giovanotto. In quella casa riuscimmo anche a rivedere nostra madre, ma facendo finta di non conoscerla e chiamandola sempre e solo “signora maestra”. Non dovevamo assolutamente far capire la nostra vera identità. Poi, col tempo, scoprimmo che anche in quella casa si nascondevano altri segreti: la vecchia signora paralitica era tutto meno che paralitica, i nipoti erano tutto fuor che nipoti… erano tre partigiani. Poi, poco prima dell’arrivo degli Alleati, potemmo riabbracciare i nostri genitori al convento di Santa Marta e, infine, dopo le ultime paure, arrivò la liberazione. Così la nostra tata ci ha salvato, ha salvato la vita a tutti.

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ROBERTO.

Ciao a tutti. Mi chiamo Roberto, come mio nonno, e ho nove anni. Con mia madre, Wanda, mio padre Mario e i miei due fratelli più piccoli, Giorgio e Carlo, vivo a Quiesa, a pochi chilometri da Lucca, nel Comune di Massarosa. Il mio papà è direttore di un’azienda lucchese ed è stato un ufficiale dell’Esercito italiano: insomma, siamo italiani come tanti. Eppure, da qualche mese, la mia famiglia è divisa, dispersa, braccata… Perché siamo ebrei e i tedeschi e i fascisti ci danno la caccia. Ci aveva avvertiti, papà: “State bene attenti. Pare che corriamo grossi pericoli. Non chiedete altro, non c’è tempo per le spiegazioni…” Allora ci siamo nascosti: prima presso il convento delle Zitine di piazza S. Agostino a Lucca. Poi, mentre papà e lo zio Renzo si sono rifugiati nella Certosa di Farneta, noi tre e la mamma abbiamo trovato scampo a Matraia sempre in un piccolo monastero delle suore di S. Zita. Oggi, da qualche settimana, la famiglia si è ricomposta e abbiamo trovato ospitalità a San Pellegrino in Alpe, in Garfagnana. Ci aiutano don Lino Togneri e don Guglielmo Sessi; con la famiglia di Raffaello Bechelli, presso cui abitiamo, è nata una amicizia semplice e fraterna. Ma neppure nei momenti più sereni mi lasciano la paura e l’ansia che questa persecuzione ha portato in me. Troppo bui sono questi giorni. Il fronte passa a pochi chilometri da qui: da una parte – dove siamo noi – i tedeschi, dall’altra gli Alleati che avanzano lentamente, troppo lentamente… Lucca è stata liberata e noi, tutti insieme, ci prepariamo per trasferirci di nascosto nel territorio controllato dagli Alleati. Abbiamo già provato a farlo alla fine di novembre, ma è andata male: ore e ore di marcia, il freddo, il buio, la paura di essere scoperti e mitragliati dalle sentinelle tedesche; Carlo ha rischiato di precipitare in un dirupo e Giorgio si è perso in un bosco. Meno male che tutto è finito bene, anche se abbiamo dovuto rinunciare alla gioia della ritrovata libertà. Ma ci stiamo riorganizzando per provare di nuovo. Domani, 19 dicembre, ritenteremo l’impresa: Barga, ormai libera, ci aspetta…

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FRANCO.

Mi chiamo Franco. Prima della guerra vivevo con i miei genitori a Livorno, poi i bombardamenti sempre più numerosi ci hanno fatto trasferire a Viareggio. Nel 1942 ho iniziato ad andare a scuola nella sezione speciale per bambini ebrei che si trovava in una stanza dell’edificio ospitante l’oratorio ebraico di Viareggio. Eravamo bambini di tutte le classi e studiavamo insieme. Anche se le leggi razziali mi impedivano di andare alla scuola pubblica, io ero un bambino sereno e giocoso. Mi ricordo l’anno dopo, l’8 settembre e i giorni successivi, con tanta agitazione per le strade: soldati italiani che chiedevano aiuto, le case che si aprivano per dar loro vestiti, cibo e soldi; anche la mia famiglia cercò di dare una mano. Poi, nell’autunno, tutto è cambiato. Avvisati da Augusto, il custode dell’oratorio, siamo fuggiti per evitare l’arresto e abbiamo tentato di confonderci tra gli altri sfollati a Colognora, tranquillo paese tra carbonaie e castagneti. Mamma aspettava un bimbo, con noi c’era mia cugina Lida. Babbo aveva affittato una bella casa in paese; aveva conosciuto il parroco, don Gino Bachini, che era anche il capo dei partigiani del paese e Giuseppe, detto “Peppone” , il mulattiere. Purtroppo un giorno siamo stati denunciati come ebrei, ma don Gino, Peppone e altri paesani erano pronti ad aiutarci. Mio babbo fu portato nei boschi, tra i carbonai, noi in una piccola casa in fondo al paese con due uscite. Brutti giorni, quelli, senza molto da mangiare. Poi la mamma fu portata a Barga, a dorso di mulo, per partorire. Peppone sistemò me e Lida in una specie di capanna. Restammo soli, in mezzo ai boschi, una donna ci portava qualcosa da mangiare. Nato il fratellino, sono ritornato in paese con la mamma e abbiamo vissuto con l’aiuto degli amici di Colognora. Il babbo invece fu catturato durante un rastrellamento tedesco insieme ad altri uomini. Finalmente arrivarono i soldati alleati, noi scendemmo a Lucca e lì poi ci ritrovò il babbo, che era riuscito a sfuggire ai tedeschi.

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GRAZIELLA.

Mi chiamo Graziella. Mio babbo Augusto, venditore ambulante, era il custode della piccola sinagoga di Viareggio. A me piaceva molto aiutarlo a sistemare i paramenti per le feste. A causa delle leggi razziali la mia famiglia si è impoverita, io ho dovuto frequentare la scuola riservata agli ebrei, separata dagli altri bambini. Un giorno un amico ha avvertito il babbo che presto avrebbero arrestato gli ebrei. Avvisate le altre famiglie, presi gli arredi della sinagoga e le nostre poche cose, il babbo ci ha portato a Lucignana. Confusi tra gli sfollati, in paese eravamo oltre venti ebrei viareggini. Io, i miei due fratelli e i miei cugini siamo diventati amici dei bambini di Lucignana. La mia amica del cuore era Anna. La sua famiglia, insieme ad altre, ci ha sempre aiutato perché sapeva che non avevamo mezzi. In paese sapevano che eravamo ebrei. Ma lì i fascisti non erano simpatici a nessuno e ci sentivamo al sicuro, anche perché c’era Bruno Stefani, il partigiano. Poi un giorno i fascisti e i tedeschi hanno sfondato la nostra porta e sono entrati. La mia famiglia era stata denunciata. La mamma ha implorato che aspettassero l’arrivo del babbo che era fuori. Allora ci misero in una casa vuota per portarci via l’indomani. Ma la notte i giovani del paese ci guidarono in alto, a Pian della Fava. Però, quando lì capirono che eravamo ebrei, ci dissero di andar via e noi tornammo a Lucignana. Nonostante la grande paura e la fame, ho passato delle bellissime ore con Anna e gli altri amici, mi sentivo accolta, non avrei voluto andar via. Forse il ricordo più terribile è l’uccisione di Bruno Stefani da parte dei tedeschi, il 10 luglio ’44, le sue sofferenze, il pianto della sua mamma, gli spari… Dopo la liberazione, nell’autunno, il babbo ci riportò a Viareggio. Con noi avevamo gli arredi della sinagoga salvati. Lucignana mi è rimasta nel cuore.

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LILLI.

Il mio nome è Adriana, Lilli per i parenti e gli amici. Racconto la mia storia con le parole di Enrica, la mia mamma, perché io allora ero troppo piccola per avere ricordi. Nel 1943 i miei genitori e i nonni materni si spostano da Lido di Camaiore a Loppeglia insieme ad altre famiglie di origine torinese. Io sono in arrivo. Il 6 gennaio 1944, mio padre, Ernesto, viene arrestato a Camaiore, su denuncia, condotto al campo di concentramento di Bagni di Lucca e poi deportato ad Auschwitz. La mamma verso la fine di gennaio, dopo che il babbo è stato portato via da Bagni di Lucca, si trasferisce con Elda, sorella del babbo e con i suoi bambini a Terrinca, nella casa di Stella che diventa una vera amica per tutti. Aiuto viene anche dal parroco, don Egisto Salvatori, che protegge il gruppo in occasione di perquisizioni e rastrellamenti. Nella primavera, a Loppeglia, ancora su delazione, vengono arrestati il nonno, il bisnonno e un amico di famiglia; lo zio Adolfo invece sfugge e trova rifugio a Fiano, presso don Aldo Mei. La mamma, provata per tutti questi arresti e per la carenza di cibo viene fatta ricoverare da don Egisto presso l’ospedale di Seravezza. Qui una suora prende a cuore il suo caso e la conforta nelle ultime settimane di gravidanza. Il 6 giugno arrivo io, piccola piccola e vengo registrata come bambina “ariana”, nascondendo la mia origine ebraica. Ma le ispezioni tedesche e fasciste mettono in pericolo il nostro soggiorno in ospedale. Due giorni dopo la mia nascita dobbiamo tornare a Terrinca. Purtroppo la mamma non ha latte e allora don Egisto riesce a trovare donne del paese che mi diano un po’ del loro. Così tra molti spaventi e tanta fame arriva il momento della liberazione e la mamma può riabbracciare a Loppeglia la nonna e lo zio più piccolo. Io non sto bene, il dottore pensa che sia una situazione disperata. Una confezione di latte e cacao, regalata da soldati americani, è la mia salvezza. Sperando nel ritorno degli uomini, scendiamo a Lido di Camaiore, ma tornerà solo il nonno ed io non ho potuto conoscere il mio babbo.

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SERGIO.

Sono Sergio, sono nato e vissuto a Livorno fino a quando i bombardamenti ci hanno fatto sfollare a Viareggio dove abitavano già dei nostri parenti. Essendo di religione ebraica non ho potuto frequentare la scuola pubblica e ho subito diverse umiliazioni, anche se ero un bambino. Ricordo che una volta un fascista livornese mi ha tolto di mano un cono gelato e lo ha buttato a terra. A Viareggio ho frequentato con altri bambini ebrei la classe per soli bambini ebrei presso la sinagoga. Nell’autunno del 1943, come le altre famiglie, siamo scappati da Viareggio per evitare di essere presi. La mia famiglia si è spostata in diversi luoghi della Versilia per fermarsi a Casoli, dove erano nascosti anche altri parenti. Qui la sera del 2 febbraio 1944, mentre eravamo insieme ad altri familiari, sono venuti ad arrestarci. Eravamo stati denunciati. Subito hanno arrestato due miei cugini e noi saremmo stati portati via il mattino dopo. Nella notte però siamo scappati a piedi fino a Torre del Lago, una lunga camminata con il cuore in gola fino alla casa di nostri parenti non ebrei. Poi babbo ha subito organizzato il nostro spostamento lontano, in provincia di Pistoia, a Gavinana. Qui eravamo in difficoltà e ci siamo rivolti al parroco che ci ha aiutato ad avere dei documenti falsi, così potevamo stare un po’ più tranquilli. Abbiamo anche conosciuto dei partigiani. Certo noi dovevamo stare attenti e non far capire che eravamo ebrei. Nonostante questa protezione, almeno due volte qualcuno di noi ha corso il rischio di essere preso durante i rastrellamenti. Mio fratello maggiore e mio padre sono finiti tra gli uomini che venivano arrestati per essere mandati a lavorare in Germania. Per fortuna entrambi hanno trovato il modo per sfuggire e siamo poi tornati tutti salvi a Livorno.

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LILIANA.

Mi chiamo Liliana e sono nata a Lucca nel 1934. Da piccola abitavo con la mamma, il mio fratellino, la nonna e la prozia Italia in una delle case del centro storico, nelle vicinanze della Biblioteca governativa. La mia famiglia era di religione ebraica, eravamo iscritti alla Comunità israelitica di Pisa. L’emanazione delle leggi antiebraiche del 1938 hanno impedito il mio ingresso a scuola e reso più difficile la vita della mia famiglia. La mia infanzia è stata molto diversa da quella dei bambini che abitavano intorno a me: infatti il centro delle loro giornate era la scuola; invece io, praticamente fino alla fine della guerra e alla caduta della Repubblica Sociale Italiana, non ho conosciuto la vita scolastica. Purtroppo, della mia infanzia mi sono rimasti pochi ricordi perché quelli, per me e per i miei cari, sono stati anni molto difficili. Ma c’è un ricordo che è scolpito nella mia mente: è il momento dell’arresto della mia mamma e della prozia Italia. E’ il dicembre del 1943, la nonna è fuori, qualcuno suona il campanello, mamma e zia aprono il portone di casa e io dalla finestra vedo che degli uomini, con indosso l’uniforme fascista, le fanno salire su un mezzo coperto da un telone. Io e mio fratello rimaniamo soli fino a quando rientra la nonna. Ora i ricordi si fanno molto vaghi. Dopo il bombardamento della stazione di Lucca, confusi tra gli altri abitanti, lasciamo anche noi la città. Con la nonna andiamo in una casetta vicina ad un bosco, usciamo poco e soprattutto evitiamo di incontrare altre persone. Dopo la liberazione di Lucca rientriamo in città, ma la mia mamma non ritorna, non la rivedrò più, come non rivedremo la prozia Italia. Io inizio a frequentare la scuola ebraica organizzata da Giorgio Nissim e sua moglie, la dottoressa Myriam, si occupa di me con affetto. Purtroppo la nonna si ammala gravemente ed io con mio fratello veniamo affidati all’Istituto Carlo Del Prete e poi siamo accolti a Roma all’Istituto ”Pitigliani”, l’orfanotrofio ebraico dove potrò completare gli studi.

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DAVID.

Il mio nome è David, la storia della mia famiglia racconta un po’ della storia degli Ebrei in Europa. Mio padre, nato in Romania, venuto in Italia per studiare dopo aver vissuto in Inghilterra, era insegnante di inglese a Pistoia, ma nel 1938 ha perso il lavoro a causa delle leggi razziali. Mia madre, nata a Zagabria in Croazia, è venuta in Italia con la mamma e altri parenti quando la guerra era già scoppiata cercando di sfuggire agli arresti degli ebrei.
Come ebrei stranieri sono stati mandati dal governo fascista in internamento libero nella provincia di Lucca: il babbo a Castelnuovo di Garfagnana e la mamma a Bagni di Lucca. Entrambi chiesero poi di essere trasferiti ad Altopascio, così si sono conosciuti e innamorati. Il babbo ha insegnato l’italiano e l’inglese alla mia mamma. Nonostante la guerra, la povertà e le leggi contro gli ebrei, sono riusciti ad avere il permesso di sposarsi nella sinagoga di Pisa. Nell’aprile 1943, all’ospedale di Lucca, sono nato io. I tempi erano difficili per tutti, specialmente per gli ebrei, ma noi eravamo abbastanza sereni perché persone gentili e generose ad Altopascio ci hanno aiutato per quanto era possibile. Con la famiglia di Cecco Rosellini è nata una vera amicizia. La mia famiglia si è poi spostata a Bagni di Lucca. Dopo l’8 settembre, temendo per le nostre vite, i miei genitori hanno cercato rifugio in Svizzera. Il primo tentativo è fallito e allora ci siamo nascosti a Vetriano di Pescaglia. Grande il terrore di venire arrestati e deportati, ma il signor Rosellini ci ha procurato il denaro per un nuovo tentativo di passare il confine svizzero. Il nostro pericoloso viaggio è finito bene: la mia vita e quelle del babbo, della mamma, che aspettava il mio fratellino, e della nonna erano finalmente salve.
Quando la guerra è finita, per qualche tempo, la mamma, io e il mio fratellino siamo tornati ad Altopascio, con la calda accoglienza della famiglia Rosellini.

i nostri testimoni

Alberto, David, Edi,
Franco, Graziella, Liliana,
Lilli, i familiari di Roberto,
Sergio, Silvano

e per la collaborazione

Archivio CDEC, Comunità Ebraica di Napoli, Liliana Picciotto, Alberta Bezzan,
Pietro Paolo Angelini, Feliciano Bechelli, Valerio Ceccarelli, Angelo Frati,
Oscar Guidi, Giorgio Motto, Anita Perfetti, Nico Pirozzi, Roberto Pizzi,
Giuseppe Rossi, Luca Santini, Sergio Sensi